domenica 24 novembre 2013

LE DANZE NELLE QUATTRO PROVINCE

Le danze delle quattro province sono un repertorio di balli diffusi su un'area culturale omogenea che comprende le zone montane delle province di Genova, in Liguria (alta val Trebbia, valle Scrivia,val d'Aveto e val Fontanabuona), Alessandria, in Piemonte (valle Scrivia,val Borbera,val Grue, e val Curone), Pavia, in Lombardia (valle Staffora,valle del Coppa,valle Scuropasso e val Versa) e Piacenza, in Emilia-Romagna (val Trebbia, val Boreca, val Luretta, alta val Nure e val Tidone).Il particolare isolamento geografico delle alte vallate ha fatto si che la tradizione sia arrivata intatta sino ai nostri giorni, sia nel repertorio musicale che in quello coreutico.Le melodie sono eseguite dal piffero (oboe popolare ad ancia doppia), accompagnato oggi dalla fisarmonica e fino agli anni trenta dalla müsa (cornamusa appenninica); la loro presenza è indispensabile, non ci sono feste o altre occasioni in cui si balli con musica registrata.La codifica di questo repertorio è molto recente e tuttora in corso, essendo danze tradizionali su melodie tradizionali che venivano tramandate oralmente e insegnate sull'esempio dei più esperti o anziani. Con la facilità di comunicazione e le possibilità tecniche odierne è in atto un ampliamento e una diffusione della conoscenza sia delle musiche che delle danze, anche al di fuori delle aree tradizionali, con un conseguente appiattimento delle danze e dello stile che un tempo avevano peculiari caratteristiche, anche sostanziali differenze, a seconda dei vari paesi o vallate ed oggi vengono danzate in modo pressoché identico ovunque.Pur essendo una zona geograficamente ristretta questo repertorio ha avuto una discreta diffusione nell'ambito della musica e delle danze tradizionali, sia in Italia che nei paesi europei, in particolare in Francia.Le danze, tutte caratterizzate dal "passo delle quattro province", si possono suddividere in tre gruppi: di coppia, di cerchio e coreografiche.

lunedì 18 novembre 2013

LA MUSICA ED IL CANTO NELLA TRADIZIONE

E' il piffero, uno strumento a fiato ad ancia simile all'oboe, il protagonista unificante della secolare storia musicale dell Quattro Province. A lui è affidata l'esposizione delle melodie per danza, dei canti cosiddetti "da piffero" e delle marce da strada.
Fino al secondo decennio di questo secolo, sua compagna era la musa, cornamusa di piccoli dimensioni ad un solo bordone.
Successivamente, la fisarmonica cromatica (a piano o a bottoni) l'ha soppiantata nell'uso ma non nella memoria.
Il repertori propone brani destinati alla danza: Alessandrina, Monferrina, Giga, Piana e Povera Donna.
Il continuo evolversi della cultura etnica nelle Quattro Province ha inoltre consentito l'assimilazione nel repertorio tradizionale di danze e relative melodie di più recente origine, quali valzer, mazurka, polka. Le marce, i canti ("stranot"), le melodie per danze non più ballate sono invece destinate essenzialmente all'accompagnamento del corteo nuziale ed ai riti del Carnevale.
Dal punto di vista della tecnica strumentistica, spicca nella tradizione delle Quattro Province l'uso particolare della fisarmonica, alla quale è affidato un ruolo di centralità ritmica di inusuale spessore.
La vocalità, molto diffusa e praticata si divide e ben definiti filoni: dalle più antiche "buiasche" di matrice locale al trallallero di origine genovese risalito nelle valli. Ricca infine anche la presenza di temi cantati assimilabili al repertorio sei cantastorie e delle mondariso.
La zona definita "delle Quattro Province" è un'area di cultura omogenea suddivisa amministrativamente in quattro province di quattro differenti regioni: Alessandria, Genova, Pavia, Piacenza. Valli e monti punteggiati da nuclei abitati di modeste dimensioni, storicamente uniti dal "sentiero del sale" che portava dal mare alla pianura del Po. Su questo percorso e sulle sue diramazioni è fiorito nel tempo uno dei fenomeni culturali più interessanti dell'Italia settentrionale: musiche, danze, canti, leggende e riti che concorrono a formare un repertorio di tradizione orale raro per qualità e quantità. Ma la sua specificità più significativa delle Quattro Province è la presenza quotidiana degli elementi tradizionali nella vita dei suoi abitanti: il "salto generazionale" che in altre zone d'Italia  ha fatto si che il patrimonio tradizionale venisse nella quasi totalità dei casi dimenticato, qui non si è sostanzialmente verificato; quando l'importanza della situazione ha inoltre consentito la conservazione della cultura tradizionale e la sua continuità nell'evoluzione  anche a fronte di un  forte movimento migratorio, che no ha intaccato nella sostanza la compattezza della matrice originaria del territorio, rendendola anzi più attuale e fruibile nella sua evoluzione.

mercoledì 16 ottobre 2013

OBERTENGHI

 Obertenghi è il nome della dinastia di origine longobarda che prende avvio da Oberto I (Otbert o Odebertus), marchese di Milano, conte di Luni e reggente della Marca che nel X secolo da lui prese nome; un territorio che comprende la Lombardia (con la Svizzera Italiana e Novara), l'Emilia con Bologna esclusa (poi si aggiunse anche Ferrara) parte del Piemonte (l'Oltregiogo con Tortona, Novi Ligure, Ovada e la val Bormida) e parte della Liguria e della Toscana, dal Genovesato fino alla Lunigiana e alla Garfagnana, e poi indirettamente anche la Corsica e parte della Sardegna.
Gli appartenenti alla famiglia avevano il titolo onorifico di Principi di San Colombano.Fin dall'impero romano, dai bizantini, dai longobardi e dai franchi nel nord Italia vi era la regione Liguria (IX regione romana), che nel IV secolo aveva unito i territori della Liguria (con capitale Genova) con quelli dell'Emilia (Regio VIII Aemilia) con capoluogo Piacenza) e verso la fine dello stesso secolo anche la Transpadana (XI regione romana con capoluogo Milano (Mediolanum), il nome fu mantenuto Liguria, ma la nuova capitale era Milano (diventata anche capitale imperiale sotto Massimiano), con i governatorati di Genova e Piacenza.
Il territorio era vastissimo a e comprendeva l'attuale Liguria (con le Alpi marittime ed il Nizzardo, fino alla Lunigiana ed alla Garfagnana), il Piemonte e la Valle d'Aosta, la Lombardia (con la Svizzera Italiana) e l'Emilia (Bologna esclusa).
Sotto i Bizantini si formò anche la Provincia Marittima Italorum con capitale a Genova, ma il tutto passò dal 641 ai Longobardi prima e successivamente ai Franchi che riunificarono la regione preesistente, senza però modificare l'assetto dato dai romani con la formazione di ducati longobardi o contee franche. Unica effettiva trasformazione fu il trasferimento della capitale a Pavia, rimanendo comunque quella religiosa a Milano, sede dell'arcivescovato.
Dal 614 si formò il Feudo monastico di Bobbio con al centro l'Abbazia di San Colombano, che successivamente diverrà Contea Vescovile avendo avuto il titolo di Città da Enrico II (1014); sotto i monaci di San Colombano grazie alla donazione del re longobardo Agilulfo, con la mediazione della regina Teodolinda e l'esenzione papale; da Bobbio (4 miglia) si espanse nei secoli successivi fino a tutta la val Trebbia (dai pressi di Piacenza fino a Torriglia), l'Oltrepò pavese,la Val Curone, la val Tidone, con Trebecco, Ruino, Romagnese, la val Nure e la val d'Aveto su un unico territorio e da feudi sparsi per tutta l'Italia settentrionale; in Liguria fino nei dintorni di Genova e dall'entroterra fino al mare da Camogli e San Colombano Certenoli ed il porto di Moneglia a tutto il Tigullio, le Cinque Terre da Levanto fino a Portovenere e Lerici e le tre isole (Palmaria, Tino e Tinetto con il monastero di San Venerio), inoltre anche le isole liguri di Bergeggi e Gallinara, fino alla Lunigiana e la Garfagnana, oltre che le isole dell'arcipelago toscano (Elba, Capraia, Montecristo, ecc.) sulla costa di ponente da Albenga a Mentone e al Col di Tenda (zona abbandonata dopo le incursioni saracene); in Gallura; in Piemonte nell'Oltregiogo (Tortona, Novi Ligure, Ovada e la val Bormida), nelle Langhe ed il Monferrato arriva alle porte di Torino e in valle Pellice (Bobbio Pellice), in Emilia ha la zona appenninica dalla val Nure fino a Pontremoli (Via Romea prima e Via Francigena dopo) passando per Bedonia, Bardi, la val di Taro (Borgo Val di Taro), Berceto e la Cisa (Via degli Abati), dalla val Fontanabuona, per la val di Vara al Magra; inoltre ha possedimenti circoscritti a Genova, Piacenza, Mantova, Venezia, Ferrara, Ravenna, Pavia, Pisa, Lucca ed Ascoli Piceno, in Lombardia nel Lodigiano (San Colombano al Lambro), attorno al lago di Como e la Valsassina (Piani di Bobbio), al lago di Garda (da Salò a Bardolino), sui laghi di Mantova, sul Mincio a Comacchio verso Venezia, con una flotta di imbarcazioni che oltre al mare navigava sul Po e sul Ticino da Pavia verso la Svizzera o verso il mare, ed aveva in concessione i trasporti terrestri (dazi e gabelle) e la loro manutenzione sui suoi territori (vie del sale, dell'olio, del vino, del pesce, della carne, del legname e carbone, ecc).
Per la difesa di tutti questi territori, con l'approvazione imperiale e papale, Bobbio si affida a guardie armate comandate dai discendenti degli Obertenghi, in esso i monaci vi avevano costruito numerosissimi monasteri collegati anche a quelli all'estero con strade percorse da monaci e pellegrini; vi erano numerosissini castelli e fortificazioni sul territorio a protezione anche religiosa, specie dal periodo delle invasioni saracene. Dopo la decadenza del X secolo, a quella successiva dopo la scomunica del Vescovo Guarnerio e alle infeudazioni dal 1164 da parte dell'imperatore Federico Barbarossa dopo l'affievolirsi della protezione imperiale e papale, i feudi passarono buona parte direttamente agli Obertenghi che ampliarono le fortificazioni e castelli con l'appoggio imperiale e successivamente ai loro discendenti di vari rami collaterali.
La Contea di Bobbio si ridusse solo a parte della val Trebbia, dell'Oltrepò, e con i borghi di Trebecco, Ruino, Romagnese e Zavattarello nell'alta Val Tidone in quella che sarà poi il feudo dei Malaspina e dei Dal Verme.
Nel 950-951 il re Berengario II terminò la riorganizzazione del territorio ligure e del nord d'Italia, iniziata da Ugo di Provenza.
conte Aleramo di Vercelli (Marca Aleramica - Liguria centro-occidentale con Vercelli, il Monferrato, Ceva, Acqui Terme fino alle coste liguri di ponente da Oneglia fino ad Albenga);
conte di Torino Arduino il Glabro (Marca Arduinica - Torino e Ivrea fino alle Alpi Marittime e sulle coste liguri dal Nizzardo e da Ventimiglia a Sanremo);
marchese Oberto I (il grande) marchese di Milano e conte di Luni (la Marca Obertenga, detta poi Marca Januensis - Liguria orientale).
Quest'ultimo era stato nominato marchese di Milano già prima del 951, con autorità sui Comitati prima appartenenti ai marchesi di Tuscia, di Milano, della Repubblica di Genova, Luni e Tortona (governati direttamente) e su quelli di Bobbio, Parma e Piacenza, Modena e Reggio Emilia, Ferrara, Ascoli Piceno (si aggiunse in un secondo tempo), poi feudi minori (governati da vescovi od abati od altri feudatari).
Gli eredi di Oberto I: Adalberto I e Oberto II [(Oberto Obizzo) morto nel 972] mantennero in consorzio la carica marchionale con l'appoggio imperiale da Ottone I ad Arduino e Corrado II.

lunedì 14 ottobre 2013

LA REGIONE DELLE QUATTRO PROVINCE E LA MARCA OBERTENGA

 La presenza sempre più diffusa dei monaci sulle montagne e la conseguente evangelizzazione delle popolazioni avevano portato una certa tranquillità. Rispetto al periodo romano, mutavano nuovamente le vie seguite dai commerci. Il sistema dei monasteri aveva sostituito le mansioni romane nella loro funzione itineraria.
Uno di questi itinerari dovette seguire il re Liutprando quando, nel 725, partì da Pavia con un corteo di prelati, di nobili e di popolo per presenziare personalmente alla traslazione delle spoglie di Sant'Agostino nella basilica di San Pietro in Ciel d'Oro, dove sono tuttora conservate. Il santo era morto a Bona, in Algeria, nel 430 d.C., e le sue spoglie già nel VI secolo erano state trasferite in Sardegna per sottrarle agli Arabi che avevano invaso tutto il Nord Africa. Quando nell'VIII secolo anche la Sardegna venne invasa, Liutprando riuscì a riscattare le preziose spoglie, che giunsero via mare e furono sbarcate a Genova. [Da questo viaggio del re prenderebbe nome il monte Liprando, posto lungo il crinale che separa le valli Pentemina e Brevenna, che costituiva una comoda via comunicazione.]
In funzione antisaracenica erano state costituite da Berengario II, nel 952, le marche Arduinica, Aleramica ed Obertenga, in un territorio che si estendeva ad arco dalle Alpi Marittime fino al Tirreno. Vi erano sparsi numerosi castelli, sistema portante nell'azione di controllo e di difesa della regione. Le Quattro Province erano incluse nella marca Obertenga, che si estendeva da qui fino alla Toscana.
Ma l'unità della marca, venute meno le cause principali in ragione delle quali era stata costituita, si sgretolò e si indebolì sempre più. Dal ceppo obertengo dei marchesi di Toscana ebbe origine la numerosa e longeva discendenza dei marchesi Malaspina, il cui dominio feudale era stato ufficialmente sancito dal diploma di investitura di Federico Barbarossa a Obizzo Malaspina, nel 1164.
Alle origini del nome Malaspina è una leggenda: un certo Azzino, nel 526, uccise con una spina Teodoberto, re dei Franchi. L'episodio è illustrato con cinque formelle in arenaria che ornano il portale d'ingresso del palazzo Malaspina di Godiasco. Il bassorilievo mostra il re dei Galli mentre assale la città di Milano. Marte ostacola l'ingresso ma il portale viene aperto con il tradimento. Sant'Ambrogio appare in sogno al tiranno, predicendogli l'imminente morte cruenta. Un giorno il re, andato a caccia da solo nel bosco, si addormenta in grembo ad un fanciullo, che lo sgozza con una spina. Le sue ultime parole furono "ahi malaspina!". Ma questo nome, come altri attribuiti a signori di quel tempo quali Ribaldo, Pelavicino, Malnipote e Malapresa, è da riferirsi più verosimilmente al modo non sempre onesto di amministrare i loro feudi, esigendo con ogni mezzo il pagamento di tributi e gabelle.
I Malaspina estendevano i loro possessi sull'ampio arco di vallate che andavano dalla Lunigiana fino al Tortonese. Il carattere tipicamente montuoso del loro territorio, che veniva a trovarsi come isolato in un quadrato ai cui vertici erano le città di Genova, Tortona, Piacenza e la Lunigiana, consentì alla casata di conservare per secoli la propria autonomia. All'inizio la marca si presentava ancora nella sua unità, e Obizzone, diretto discendente di quell'Oberto Obizzo I al quale era toccata la quarta parte dell'intero patrimonio obertengo, fu tra i personaggi di primo piano nella lotta fra i Comuni e l'Impero. Tre anni dopo la sua investitura, per ricambiare i favori imperiali, corse in aiuto del Barbarossa, salvandolo dall'agguato di Pontremoli. L'imperatore, sceso per la quarta volta in Italia, dopo aver conquistato Roma, era stato costretto ad un ritorno in patria a causa di un'epidemia. Il marchese Obizzo lo scortò lungo tutti i suoi feudi montani, passando per Oramala e Sant'Alberto di Butrio, facilitando il suo ritorno in Germania.
La rocca di Oramala fu tra le dimore preferite dei Malaspina, nel periodo di maggior splendore. Costruita sulla sommità di un colle boscoso, di cui sembra il naturale prolungamento, domina dall'alto la piana di Varzi, spingendo lo sguardo verso Sud fino alla zona di Pregola, dove si trovavano altre fortezze dei Malaspina. Dopo un periodo di scontri e guerre, Obizzo il Grande aveva suscitato tra gli appartenenti alla famiglia l'amore per le tradizioni cavalleresche, il culto per la gentilezza e la cortesia. La rocca della valle Staffora era meta di numerosi trovatori. Qui si levarono i primi canti provenzali in Italia.
In seguito la casata andò incontro ad un lento ma continuo sfaldamento. Una delle principali cause era l'abitudine di frazionare i feudi, dividendoli in parti uguali fra i figli maschi. Come conseguenza di queste ripetute suddivisioni del patrimonio, nacquero lotte tra i diversi rami della stessa famiglia, che portarono alla dispersione dei possedimenti. La divisione più rilevante, stipulata da Obizzino e Corrado l'Antico, nipoti di Obizzo il Grande, segnò la distinzione araldica che da allora indicò i rami della famiglia. Da Corrado l'Antico discese il ramo dello Spino Secco. Da Obizzino discese il ramo dello Spino Fiorito. Lo stemma araldico, in campo dorato e sormontato da un'aquila, simbolo dell'Impero, aveva nel primo caso un rovo con sei rami muniti di aculei; nell'altro il rovo era decorato, alle estremità, da sei rami di fiori di spino.
Le castellanie, in seguito, furono sempre più soggette all'aggressione della feudalità minore, cresciuta ai margini, e delle importanti famiglie cittadine che miravano ad annettere domini rurali ai loro possedimenti. Alla periferia del loro territorio cominciavano a crescere e a rafforzarsi le città, che cercavano di espandere la loro influenza nelle valli, lungo le quali transitavano i commerci fra la pianura e la zona costiera.
La città di Pavia, volendosi garantire una propria via di comunicazione con Genova, ottenne nel 1284 la stipulazione di un trattato con i marchesi Malaspina. Veniva regolata la questione dei pedaggi per il transito delle merci in valle Staffora; i marchesi si obbligavano fra l'altro a garantire la sicurezza dei viaggiatori. In val Trebbia i Malaspina erano insediati sia nei territori a monte di Bobbio, sia nella media valle fino a Rivalta, Rimaneva escluso Bobbio con il suo circondario, che apparteneva ai monaci dei monasteri di San Colombano e di San Paolo di Mezzano. Ma gradualmente le curie ed i castelli della val Trebbia entrarono nell'orbita del comune di Piacenza, il quale, lasciando l'esercizio di certi poteri locali agli antichi proprietari, diventò in effetti il principale dominatore. Analoghe vicende accaddero ai confini occidentali dell'antica marca Obertenga, che comprendeva le valli dello Scrivia e dei suoi affluenti. Tortona e Genova tentarono di allargare la propria influenza al di fuori delle mura cittadine. La città di Tortona gravitava sui territori ad Est dello Scrivia ed in val Borbera, dove aveva ereditato beni che erano appartenuti ai monasteri devastati dai Saraceni, come Vendersi e Savignone.
I maggiori feudatari incontravano difficoltà nell'amministrare i castelli più lontani, dei quali a volte erano costretti a cedere rendite e pedaggi ai signori che li governavano quali loro rappresentanti. Questa situazione indeboliva progressivamente i feudi, che rimanevano sempre più esposti all'azione di alcune importanti casate, che nel frattempo si erano rafforzate, e che cominciavano a far sentire la loro presenza nella regione.
I Fieschi di Lavagna, lontanamente imparentati con gli Obertenghi, avevano trovato nella città di Genova un ostacolo alla loro espansione nella fascia costiera. Favoriti dal loro pontefice Innocenzo IV Fieschi, si erano creati un dominio feudale nell'entroterra, nei territori che in precedenza erano appartenuti ai Malaspina. In un primo tempo avevano acquisito feudi in Lunigiana e in val di Vara, spingendosi in seguito verso ovest. Non ostacolati da Genova, acquistarono i feudi di Savignone, Montoggio, Crocefieschi e Casella, occupando interamente l'alta valle Scrivia. Da questa posizione potevano controllare efficacemente la strada che proveniva da Genova e proseguiva in direzione della pianura. Il controllo fu ancora più efficace dopo l'acquisto di Mongiardino e di Cremonte, nella stessa val Borbera. La loro espansione fu completata con l'acquisizione di Torriglia e di Carrega, lungo la via del monte Antola, di Grondona in valle Spinti, e di Garbagna in val Grue, in pieno territorio tortonese.
Un'altra importante famiglia genovese, gli Spìnola, favorita inizialmente dalla sua stessa città, aveva posto le sue basi in valle Scrivia, precisamente a Ronco e Isola. Gli Spinola discendevano dai Carmandino, una delle casate a cui i marchesi Obertenghi, pur non appartenendo alla loro stirpe, avevano assegnato dei possedimenti in loro rappresentanza. L'espansione degli Spinola si rivolse nelle valli a levante dello Scrivia, con l'acquisto dei castelli di Campolungo, di Grifoglieto e successivamente di Mongiardino, che era appartenuto ai Fieschi, controllando in questo modo le comunicazioni fra la valle Scrivia e le valli Vobbia e Borbera. In seguito acquistarono anche Cantalupo e Dernice, importanti centri di transito lungo la via che portava a Tortona e Voghera. Così, alle spalle di Genova, il dominio degli Spinola acquistò sempre maggiore importanza, non tardando ad infastidire la stessa città che in un primo tempo aveva favorito la loro espansione.
Lo sforzo compiuto dai feudatari per acquisire una maggiore indipendenza dalle grandi potenze confinanti, ed il desiderio di unirsi in difesa dei comuni interessi e privilegi, si concretizzò nel 1495. Massimiliano I, riaffermando la supremazia dell'Impero sull'Italia settentrionale, investì dei feudi Ludovico il Moro; essi acquisirono in questo modo una loro consistenza politica, e vennero chiamati Feudi Liguri Imperiali.
Anche i Fieschi, come gli Spinola, avevano ottenuto, nella persona di Gian Luigi il Vecchio, il riconoscimento ufficiale dell'Impero, con l'investitura del 1495. Tuttavia, la loro politica aggressiva nei confronti di Genova, che minacciavano ripetutamente dalle loro postazioni appenniniche, ed il loro propendere su alcune questioni più per la Francia che per Carlo V e l'Impero, li portarono ad una grave crisi e ad una quasi totale perdita dei loro domini. Dopo la morte di Sinibaldo Fieschi, le vicende precipitarono in occasione della fallita congiura di Gian Luigi Fieschi. Questi il 2 gennaio del 1547, con una sortita, tentò di mettersi a capo della Repubblica genovese, avendo come obbiettivo l'uccisione di Andrea Doria. Ma il piano non riuscì. Scattò allora la rappresaglia dei Doria, unita all'intervento dell'imperatore Carlo V, che aveva messo a capo delle sue milizie, nell'occasione, Agostino Spinola. Quest'ultimo, da tempo in lotta con i vicini feudatari, sperava di ricevere come compenso gli eventuali feudi confiscati. I congiurati si erano rifugiati nella fortezza di Montoggio, che cadde dopo un lungo assedio, segnando la loro definitiva sconfitta.
Ai Fieschi rimase solamente il feudo di Savignone, avviato ad un graduale impoverimento. L'imperatore operò la suddivisione dei feudi confiscati. A Genova furono consegnati Montoggio, Roccatagliata e Varese Ligure. Ai Doria, fautori dell'Impero, vennero assegnati i feudi di Garbagna e Grondona, in territorio tortonese, Torriglia e Carrega, nella regione del monte Antola, e molti altri verso levante, fino alla val di Taro.
I Doria, ricevuta l'investitura sui feudi da Carlo V nel 1549, avevano rivolto le loro principali attenzioni alla parte più orientale dei loro domini, senza interferire con la presenza degli Spinola in valle Scrivia e in val Borbera. La base del loro comando era stata insediata nel castello di Santo Stefano, in val d'Aveto. In seguito la loro politica espansionistica si concretizzò con ripetuti acquisti di castelli già appartenuti ai Fieschi, dovendosi guardare dalla concorrenza di alcune importanti famiglie genovesi che nel frattempo si erano rafforzate ed affacciate in val Trebbia, acquistando beni messi in vendita dai discendenti della famiglia Malaspina. Fra questi, i Centurione, mercanti genovesi, erano entrati in possesso dei feudi di Fontanarossa e Campi, ed avevano fatto costruire il palazzo fortezza di Gorreto.
I Doria avevano acquistato il feudo di Ottone, con il castello. Agli anelli di ferro, infissi nelle solide mura, pare venissero appese le membra squartate dei malfattori. Durante la loro dominazione furono emanati gli "Statuti dei Doria di Ottone", derivati dai "Codici di Cariseto" precedentemente diffusi dai Malaspina. Le punizioni previste, per chi veniva meno alla legge, erano molto dure. Ancora oggi in val Trebbia si dice "giustizia di Cariseto" per indicare un giudizio severo.
Più a Nord, nelle terre comprese fra il Trebbia e lo Staffora, gli eventi storici erano ancora legati ai complessi casi della famiglia Malaspina. La proprietà del castello di Pregola, sede della linea più importante della famiglia, era divisa fra i suoi membri. Nel 1570 il marchese Gian Maria tentò di impadronirsene con il tradimento, ma il tentativo fallì. Per rappresaglia, Gian Maria devastò i territori di Zerba e Belnome, uccidendo uomini e donne e razziando il bestiame. Cinque anni dopo tentò nuovamente di impossessarsi del castello. Non riuscendo a portare a termine l'impresa, lo incendiò e lo distrusse. Per i suoi misfatti gli furono confiscati tutti i beni.
Con il trascorrere del tempo, per il mutare delle condizioni storiche, in tutta la regione apparivano superate le originarie funzioni dei castelli, edificati in epoca medioevale sulla sommità dei poggi, in luoghi di più facile difesa. Nei fondovalle si aprivano nuove vie di comunicazione, e nei centri attraversati venivano costruiti i palazzi cui faceva capo la giurisdizione dei feudi. Questi vennero progressivamente elevati da semplici signorie a baronie, contee, marchesati e principati, conferendo loro un crescente prestigio. Le ricche famiglie cittadine sostituirono gradatamente gli antichi feudatari finiti in rovina. Nell'acquisto di beni fondiari trovavano modo di investire i capitali accumulati con il commercio, e potevano inoltre fregiarsi di titoli nobiliari.
Ma nella struttura dei Feudi Liguri Imperiali venne mantenuto, alle spalle di Genova, un territorio indipendente, che procurò sempre alla città preoccupazioni e danni ingenti. Diverse volte Genova tentò di entrarne in possesso, proponendone anche l'acquisto all'imperatore con grosse somme. Ma i feudatari, guidati dagli Spinola, con un appello all'autorità imperiale fecero fallire il progetto di Genova.
La storia dei Feudi Liguri Imperiali ebbe termine con la discesa in Italia di Napoleone Bonaparte. Questi, nella primavera del 1796, fissò il suo quartier generale a Tortona. Le truppe francesi compirono numerose incursioni nelle valli, che causarono, per le razzie compiute, la rivolta della popolazione. Un corriere postale francese venne assalito ed ucciso. In seguito venne tesa un'imboscata ad ottanta francesi lungo lo Scrivia, a Rigoroso. Il marchese di Arquata, Agostino Spinola, accusato di essere fra i responsabili dell'agguato, venne bandito dai feudi. Furono ordinati numerosi arresti. In quei giorni il colonnello Lannes, per ordine di Napoleone, fece incendiare il borgo di Arquata, distruggendo molte abitazioni e l'ospedale.
Il 15 giugno 1797 Napoleone Buonaparte e gli inviati della Repubblica di Genova diedero vita al convegno di Mombello, nel quale venne decisa l'annessione dei Feudi Imperiali a Genova. L'8 luglio l'agente francese Vendryes, eseguendo un'ordinanza di Napoleone, proclamò in Arquata la fine dei Feudi Imperiali Liguri, ratificata in seguito con il trattato di Campoformio. L'imperatore d'Austria rinunciava definitivamente a tutti i diritti che vantava sui Feudi, accettando la loro unione alla Repubblica Ligure Democratica. Non tutta la popolazione fu favorevole a questa soluzione, ed alle fazioni filofrancesi si opponevano quelle conservatrici, legate ai vecchi feudatari e all'Impero.
Tra le vicende di quegli anni va ricordato che "nel 1799, le sponde della Trebbia furono teatro di una famosa battaglia fra i Francesi capitanati da Macdonald e i Russi e gli Austriaci alleati, guidati i primi da Suvarof, e i secondi da Melas. Combatterono il 18, 19 e 20 giugno e prevalse la fortuna degli imperiali. Più di seimila furono i morti e i feriti dalla parte dei Francesi, i quali, con una disastrosa ritirata attraverso l'Appennino, si ricongiunsero a Genova col corpo del generale Moreau. Posti avanzati di Austriaci e Francesi svernarono in quell'anno su tutti i gioghi dell'alta val Trebbia, alle Capanne di Cosola, di Carrega, di Pey, ai monti Oramara, Friciallo, Lavagnola ecc." [Guida per le escursioni nell'Appennino ligure-piacentino / A Brian — Genova 1910]. Poco sopra Artana, in val Boreca, esiste un pianoro denominato Campo dei Francesi.
Napoleone, nel 1805, divenuto imperatore, decretò l'annessione della Repubblica Ligure Democratica alla Francia. Così le valli tra il Trebbia e lo Scrivia entrarono a far parte dell'Impero francese. Seguì un periodo difficile per gli abitanti della regione, che furono costretti a cibarsi anche di erbe per sopravvivere. Numerosi giovani furono arruolati per le campagne napoleoniche. I gendarmi francesi, inviati sui monti per inseguire i disertori, ritornavano spesso senza preda.
Dopo le sconfitte di Napoleone, il congresso di Vienna decretò l'annessione della Repubblica Ligure Democratica, con il nome di Ducato di Genova, al Regno di Sardegna.

Fabrizio Capecchi
estratto e adattato da Un'isola tra i monti — Croma: Pavia 1990

venerdì 4 ottobre 2013

I MALASPINA...SIGNORI DELLE 4 PROVINCE

Malaspina è il cognome della nobile famiglia italiana di origine longobarda, discendente dal ceppo obertengo dei marchesi di Toscana, che resse la Lunigiana e, dal XIV secolo, il marchesato di Massa e Carrara.
I Malaspina appoggiarono ora i ghibellini ora i guelfi. Come appartenente alla fazione guelfa prese parte alle lotte dei Lombardi contro gli Hohenstaufen. Con Morello dei Malaspina di Giovagallo fu a capo dei guelfi toscani che difesero Firenze contro Enrico VII. La fazione ghibellina toscana a difesa di Enrico VII fu guidata da un altro esponente della famiglia, Spinetta Malaspina detto il Grande.
Ebbe anche un'ampia e compatta signoria nella zona a nord di Genova (area delle Quattro province), nelle valli dei fiumi Trebbia e Staffora. Entrambe le signorie, quella della Lunigiana e quella a nord di Genova (detta lombarda), andarono ben presto sfaldandosi per l'adozione del diritto longobardo che prevedeva la spartizione dei beni (e anche dei feudi) tra tutti i figli maschi.
Alcuni esponenti dei Malaspina ressero una parte del Giudicato di Torres nei secoli XIII e XIV secolo e soprattutto, dal XV al XVIII secolo, il ramo dei Cybo-Malaspina governò il principato indipendente di Massa e Carrara (poi Ducato di Massa e Carrara). Possedimenti sardi dei Malaspina:Castello di Serravalle (Bosa) con le curatorie di Planargia e Costa de Addes; Castello di Osilo (Osilo) con le curatorie di Montes, Figulinas e Coros.
Gli appartenenti alla famiglia avevano il titolo di Principi di San Colombano.
Malaspina sono una delle famiglie discese dal ceppo degli Obertenghi, il cui capostipite fu Oberto I (Otbert o Odebertus), che fu attorno alla metà del X secolo conte palatino (conte del Sacro Palazzo di Pavia e massima autorità giudiziaria nel Regno), e dal 951 marchese di Milano e conte di Luni e della marca da lui detta Obertenga, nella Liguria Orientale, comprendente i comitati di Milano, Genova, Tortona, Bobbio, Luni e zone limitrofe [1].
Questo ampio territorio andò riducendosi e spezzettandosi, sia per le divisioni ereditarie (non avendo l'istituto del maggiorascato), sia per avvecendamenti con altre famiglie (Fieschi, Spinola, Doria ed altri) e sia per la pressione dei nascenti comuni (Milano, Genova, Piacenza, Tortona, Pavia e Bobbio).
Da Oberto I, attraverso i successivi discendenti Oberto II, Oberto Opizzo I, Alberto I, Oberto Obizzo II, si giunge ad Alberto o Adalberto (morto nel 1140) detto Malaspina, capostipite della famiglia. Il figlio Obizzo I (il grande) (morto nel 1185) ebbe nel 1164 confermati i suoi feudi dall'imperatore Federico I e fu nominato vassallo imperiale: essi si componevano già dei due blocchi storici: parte della Liguria (Tigullio, Cinque Terre e Levanto sul mare, persi per acquisizioni di Genova e dei Fieschi), con la Lunigiana e la Garfagnana e la zona delle valli del Trebbia (fino a Torriglia), la Val d'Aveto (fino a Santo Stefano d'Aveto) e Staffora (Oltrepò); e in quella che allora si diceva Lombardia (Val Bormida e Oltregiogo).
Dei suoi vari discendenti nel 1220 erano viventi i soli Corrado e Opizzino, confermati dall'imperatore nei loro feudi invero alquanto ridotti per le cessioni fatte specie a Piacenza. Nel 1221 essi divisero le loro signorie: Corrado ebbe la Lunigiana a ovest del Magra e la val Trebbia in Lombardia, dando origine al ramo dello Spino Secco; Opizzino ebbe la Lunigiana a est del Magra e la valle Staffora in Lombardia, dando origine al ramo dello Spino Fiorito.

LINEA DELLO SPINO SECCO
Dai figli di del capostipite Corrado, ricordato da Dante Alighieri come l'antico, derivarono (divisione effettuata nel 1266) quattro ulteriori linee.

Malaspina di Mulazzo

Trassero origine da Moroello (morto nel 1284), che oltre al castello di Mulazzo in Lunigiana, principale castello della linea dello Spino Secco, possedeva feudi in Val Trebbia attorno a Ottone, e partecipazioni nei domini della famiglia in Sardegna. La linea primogenita tenne sempre il marchesato di Mulazzo fino all'abolizione del feudalesimo, e si estinse (1810) con il marchese Alessandro Malaspina, celebre politico e navigatore. Il marchesato, sovrano dal 1266 al 1797 e feudo imperiale fin dal 1164, si estese con varie acquisizioni anche su Pozzo, Montereggio, Montarese, Castagnetoli (dal 1746), Calice, Veppo e Madrignano (questi tre ultimi dal 1710 fino al 1772sono amministrati dalla linea minore, quando per difficoltà finanziarie furono venduti al granduca di Toscana). Nel XVI secolo si distaccarono temporaneamente le linee di Madrignano (1523-1634) e di Monteregio (1523-1646) e il feudo di Mulazzo dal 1473 fu governato ad anni alterni fino al 1776 da due linee familiari conosciute come "Malaspina del Castello" e "Malaspina del Palazzo". La linea diretta maschile si estinse con il famoso esploratore Alessandro Malaspina. Suoi sovrani furono:
Stemma dei Malaspina (incisione fine XIX secolo)
  • Moroello dal 1355 ha l'investitura imperiale del feudo
  • Antonio 1365-1406
  • Azzone -1473
  • Cristoforo -1511
  • Azzone II
  • Gian Paolo -1517 e Gian Gaspare -1531 (del Palazzo)
  • Moroello II -1573 e Gian Cristoforo -1574
  • Francesco Antonio -1574
  • Giampaolo II -1584 e Gian Gaspare II -1584
  • Leonardo -1605 e Anton Maria -1600
  • Gian Vincenzo - 1623
  • Ottavio -1646 e Gian Cristoforo II -1643
  • Moroello III -1657
  • Azzo Giacinto -1674 e Corrado -1676
  • Carlo Maria -1705 e Obizzo -1691
  • Azzo Giacinto II -1746 e Gian Cristoforo III -1763
  • Carlo Moroello -1774 e Cesare -1776
  • Azzo Giacinto III -1797 (e Luigi -1797, de jure)
Tra le linee collaterali derivate da questa di Mulazzo ricordiamo:
  • Malaspina di Cariseto e Godano, da Cariseto  fraz. di Cerignale in Val Trebbia, trassero origine da Antonio (morto nel 1477), figlio di Antonio di Mulazzo, e si estinsero nel giro di due generazioni: il marchesato di Cariseto passò ai Fieschi nel 1540 e successivamente ai Doria.
  • Malaspina di Santo Stefano, da Santo Stefano d'Aveto, in una valle tributaria della Val Trebbia, trassero origine da Ghisello I (morto nel 1475), figlio di Antonio di Mulazzo; già nel 1495 vendettero il marchesato di Santo Stefano ai Fieschi, mantenendo i feudi di Gòdano e Bolano (entrambi in val di Vara, intermedia tra la Lunigiana e la Val Trebbia), e si estinsero nel XVII secolo, lasciando i loro feudi alla linea principale di Mulazzo.
  • Malaspina di Edifizi, da Edifizi fraz. di Ferriere in val Nure, trassero origine da Pietro, figlio di Ghisello I di Santo Stefano, e si estinsero nel 1624.
  • Malaspina di Casanova (da una Casanova probabilmente presso Ottone), trassero origine da Antonio, figlio (forse) di Barnabò di Mulazzo, e si estinsero nel XVIII secolo dopo aver venduto il feudo ai Doria nel XVI secolo.
  • Malaspina di Croce (da Croce Fieschi nell'Appennino ligure) che venderono il feudo ai Fieschi nel 1504.
  • Malaspina di Fabbrica, da Fabbrica fraz. di Ottone (da non confondersi con Fabbrica Curone di cui erano marchesi un ramo dei Malaspina di Varzi), trassero origine da Moroello, figlio di Bernabò o di Galeazzo di Mulazzo, venderono nel 1540 il feudo ai Fieschi, sopravvissero alla fine del feudalesimo ed esistono tuttora.
  • Malaspina di Ottone, da Ottone in Val Trebbia, trassero origine da Giovanni, figlio di Bernabò o di Galeazzo di Mulazzo; venderono il feudo nel 1540 ai Fieschie si estinsero all'inizio del XIX secolo.
Malaspina di Orezzoli, da Orezzoli fraz. di Ottone, trassero origine da Galeazzo figlio di Giovanni di Ottone, si ramificarono moltissimo; estinti nel XVIII secolo nella linea principale, esistono ancora in varie linee collaterali. Da una di esse, residente a Bobbio, derivò per adozione la linea dei Malaspina-Della Chiesa, marchesi di Volpedo e Carbonara.
Malaspina di Frassi, da Frassi fraz. di Ottone, trassero origine da Giovanni, figlio di Galeazzo di Orezzoli, ed esistono tuttora in varie linee. Venderono il feudo nel 1656 ai Doria.
  • Malaspina di Madrignano, linea indipendente dal 1355 con Azzone fino al 1631. La linea indipendente fu ricostituita dal 1710 al 1772 con i consignori di Mulazzo (linea del Palazzo).
Sui marchesi furono:
  • Azzone II 1446
  • Bonifazio 1531-55
  • Stefano -1592
  • Bonifazio II
  • Stefano II -1600
  • Giulio Cesare -1631.
  • Rinaldo di Suvero
  • Moroello di Mulazzo.
  • Gian Cristoforo II 1710-63, consignore di Mulazzo
  • Cesare -1772, consignore di Mulazzo.
      • MALASPINA DI PREGOLA
      • Trassero origine da Alberto (morto nel 1298), figlio di Corrado l'antico. Ebbero il feudo di Pregòla (fraz. di Brallo di Pregola) con un vasto territorio sul lato sinistro della Val Trebbia (il fiume divideva i loro feudi da quelli del ramo di Mulazzo), a monte di Bobbio. Nel 1304 Corradino Malaspina signore della rocca di Carana (Corte Brugnatella) (non compresa nella donazione del Barbarossa, ma donata in feudo dall'abate di Bobbio Rainerio in cambio del diritto di riscuotere il pedaggio sulla strada della Val Trebbia) d'accordo con Visconte Pallavicino e l'Abate di Bobbio Guido prende Bobbio e la trasforma in una signoria costruendovi l'attuale castello; nel 1341 i Visconti di Milano si impossessano di Bobbio e di Corte Brugnatella, togliendogli la rocca di Carana e distruggendo il castello nero (da colore delle pietre) ma lasciando la torre di guardia sul Bricco (805 m), dopo il 1347, quando muore Corradino, il feudo viene ridato ai figli, ma nel 1361 lo devono cedere sempre ai Visconti e poi nel 1436 passa ai Dal Verme divenuti Conti di Bobbio e Voghera; inoltre gli viene tolta la zona dell'antica parrocchia di San Cristoforo nella Valle del Carlone, rimanendogli solo Dezza che era sempre nella parrocchia di San Cristoforo e dandola ai Malaspina di Pregòla. Con una prima divisione nel 1347 si staccarono i feudi di Prato (fraz. di Cantalupo Ligure, nella Val Borbera, adiacente alla Val Trebbia) e di Corte Brugnatella, che ebbero breve vita. Nella successiva divisione del 1453 si determinarono i quattro quartieri del marchesato di Pregola, ognuno infeudato a un distinto ramo della famiglia. Questi rami furono dunque:
        • Malaspina di Vezimo, da Vezimo fraz. di Zerba in Val Trebbia, si estinsero alla fine del XVI secolo.
        • Malaspina di Pei e Isola, da Pei, frazione di Zerba, e Isola, località ormai disabitata in comune di Brallo di Pregola, si estinsero nel XVII secolo (ma forse esistono ancora loro discendenti tra i Malaspina della zona, di cui si ignora la genealogia).
        • Malaspina di Alpe e Artana, da Alpe fraz. di Gorreto e Artana fraz. di Ottone, si estinsero nel XVII secolo.
        • Malaspina di Pregòla, Campi e Zerba, da Zerba e Campi fraz. di Ottone, diedero origine alla linea che, acquistando la maggior parte delle quote del feudo principale, riebbe in esclusiva il titolo di Marchesi di Pregòla (ricordati ed omaggiati sempre durante la festa e la sfilata medioevale in costume di Bobbio che si tiene nella festa di San Colombano a novembre). Con il marchese Oliviero, ottennero nel 1541 l'investitura come feudo imperiale e tale rimase nonostante le aspre contese con i Savoia fino alla fine del feudalesimo in Italia (1797). L'ultimo marchese titolare del feudo fu Baldassarre che ebbe forti pressioni dalla corte di Torino per rinunciare ai sui diritti feudali. Per motivi ereditari il feudo era divenuto un condominio con altri rami della famiglia e con marchesi Pallavicino di Cabella che, con Gerolamo, avevano usurpato nel 1660 porzioni pro quota del feudo malaspiniano. Nel 1782 Gian Galeazzo Malaspina di Santa Margherita, Antonio Giuseppe Malaspina di Orezzoli, eredi di Corrado Malaspina di Pregòla (la cui vedova Maria Teresa Farnese dal Pozzo dal 1777 era divenuta pensionaria dei Savoia) e Giovan Carlo Spinola Pallavicino, rivendicano presso la corte di Vienna le loro prerogative feudali nei confronti della politica annessionista dei Savoia, facendo intervenire l'imperatore.
        La linea diretta sopravvisse alla fine del feudalesimo, e resta tuttora un ramo della famiglia emigrato in Grecia e attualmente negli USA.

        Linea dello Spino Fiorito

        Stemma dei Malaspina dallo Spino Fiorito
        Da tre nipoti e un figlio superstite del capostipite Opizzo Malaspina detto Obizzino, per divisione attuata nel 1275, ebbero origine quattro ulteriori linee.

        Malaspina di Varzi

        Discesero da Azzolino, nipote di Obizzino e figlio di Isnardo, che morì prima della divisione del 1275; Azzolino ebbe in comune con il fratello Gabriele un terzo delle signorie del nonno Obizzino, parte in Lunigiana e parte in Lombardia, e successivamente, in accordo col fratello, tenne per sé i soli feudi lombardi, localizzati in valle Staffora attorno a Varzi. Il marchesato di Varzi fu diviso tra i tre figli di Azzolino: la linea di Isnardo, che possedeva Menconico, si estinse nel XV secolo, le altre due invece sopravvissero:
        • Malaspina di Fabbrica, da Fabbrica Curone in una valle adiacente alla valle Staffora, discendevano da Obizzo figlio di Azzolino. Si estinsero alla fine del XIX secolo dopo che erano divenuti Sforza-Malaspina.
        • Malaspina di Varzi (linea primogenita), si estinse nel XIX secolo dopo essersi molto ramificata e aver perso gradualmente il controllo del marchesato. Forse ne esistono ancora discendenti tra i molti Malaspina della valle Staffora, di cui si ignora la genealogia, provenienti da rami decaduti. Da essi derivarono dei rami che acquisirono una propria identità:
        • Malaspina di Santa Margherita, da Santa Margherita, fraz. di Santa Margherita di Staffora, trassero origine da Cristoforo (morto dopo il 1420), si estinsero nel 1821.
        • Malaspina di Casanova, da Casanova Staffora, fraz. di Santa Margherita di Staffora, ebbero origine da Baldassarre figlio di Bernabò di Varzi, e si estinsero nel XVII secolo.
        • Malaspina di Bagnaria, da Bagnaria di cui avevano solo il titolo nominale, ebbero origine da Bernabò figlio di Bernabò di Varzi, e si estinsero nel XVII secolo.

        Malaspina di Fivizzano

        Discesero da Gabriele, nipote di Obizzino e figlio di Isnardo, che morì prima della divisione del 1275; Gabriele ebbe in comune con il fratello Azzolino un terzo delle signorie del nonno Obizzino, parte in Lunigiana e parte in Lombardia, e successivamente, in accordo col fratello, tenne per sé i soli feudi in Lunigiana, consistenti nel castello della Verrucola presso Fivizzano, e dei territori circostanti nella Lunigiana orientale. Dei tre figli di Gabriele, Isnardo lasciò una discendenza che si estinse nel XV secolo, lasciando Fivizzano alla Repubblica di Firenze di cui erano alleati, e determinando quindi la presenza fiorentina prima e toscana poi in Lunigiana (la futura Lunigiana Granducale contrapposta a quella malaspiniana e poi modenese); Spinetta si mise al servizio di Verona e la sua discendenza si chiuse coi suoi figli; Azzolino ebbe Fosdinovo e diede origine alla linea dei Malaspina di Fosdinovo, la più importante della casata, vicari imperiali in Italia. Nipote di Azzolino fu Spinetta detto il Grande (morto nel 1350), che ebbe importanti incarichi politici presso vari Stati italiani e fu padre di Antonio Alberico, che divenne marchese di Massa nel 1441[3]. A lui successe il figlio Giacomo (?-1481) che alla signoria su Massa aggiunse quella su Carrara e territori limitrofi .Il figlio Alberico privò cacciò dallo stato il fratello Francesco e la sua prole, privandogli di ogni diritto, lasciando come unica erede la figlia Ricciarda sposata a Lorenzo Cibo, da cui discesero i Cybo-Malaspina, successivi marchesi e poi Principi di Massa e Carrara.
        Questo ramo della famiglia ebbe poi vari rami collaterali, tra cui:
        • Malaspina di Sannazzaro, da Sannazzaro de' Burgondi presso Pavia, discesero da Francesco, figlio di Giacomo I di Massa che era stato investito di Sannazzaro nel 1466. Si estinsero nel 1835 con Luigi, cittadino di Pavia in cui ebbe un preminente ruolo politico e culturale.
        • Malaspina di Fosdinovo, discesero da Galeotto (+1367), figlio di Azzolino. Gabriele figlio di Antonio Alberico I di Fosdinovo, tenne il feudo avito di Fosdinovo, lasciando ai fratelli gli altri possedimenti. Spinetta nel 1340 consolida il proprio stato garantendone la signoria nei secoli successivi. Il marchesato come sovranità autonoma si costituì nel 1367 e si estese su Viano, Castel dell'Aquila, Gragnola (1646), Cortila, Pulica, Giucano, Ponzanello, Tendola, Marciano e Pusterla, Caniparola.
        Nel 1529 gli viene riconosciuta la carica ereditaria di Vicari imperiali per i feudi italiani e nel 1666 l'imperatore gli concede il diritto di zecca. L'ultmo marchese sovrano, Carlo Emanuele, si dimostra favorevole all'abolizione dei feudi imperiali in Italia, aderendo al decreto napoleonico del 2 luglio 1797; la famiglia Torrigiani-Malaspina è ancora proprietaria del castello fosdinovese.
        I marchesi sovrani furono:
        • Spinetta 1367-98
        • Antonio Alberico I -1445
        • Gabriele -1508
      •  MALASPINA DI OLIVOLA
      • Trassero origine da Francesco, figlio di Bernabò e nipote di Obizzino. Nella divisione del 1275 ebbe terre sia in Lunigiana (incentrate sul castello di Olivola, fraz. di Aulla) sia in Lombardia (comprendenti il castello di Pizzocorno, fraz. di Ponte Nizza). Tutti i discendenti furono assassinati nel 1413 nel castello di Olivola. I loro feudi furono spartiti tra gli altri rami della famiglia (Fosdinovo e Godiasco). Olivola è dato alla linea di Gragnola e alla sua estinzione passa ad Alberico I di Fosdinovo ed al figlio Gabriele IV (-1485) che lo lascia al figlio Giovan Battista. Viene ereditato dal figlio Lazzaro che dal 1525 crea una nuova linea autonoma fino all'abolizione dei feudi imperiali del 1797 (vedi sopra).
        Marchesi sovrani:
        • Bernabò 1249-65
        • Franceschino -1339
        • Domenico -1355
        • Marco -1398
        • Manfredi, Bernabò II, Giovanni -1413.

        Malaspina di Godiasco

        Discesero da Alberto, figlio di Obizzino, che nella divisione del 1275 coi nipoti ebbe feudi sia in Lunigiana sia in Lombardia, incentrati sui castelli di Filattiera (per cui furono inizialmente detti anche Malaspina di Filattiera, titolo poi rimasto solo a una linea) e di Oramala (fraz. di Val di Nizza), cui successivamente subentrò il borgo di Godiasco come centro principale della famiglia. Nel 1743 si formò la Provincia di Bobbio sotto il Marchesato di Bobbio (dal 1516) sotto i Savoia e sotto il mandamento di Varzi, che racchiuse i territori. Attraverso Nicolò detto Marchesotto, figlio di Alberto, e ai suoi cinque figli, derivarono le cinque linee della famiglia, che ebbero tutte quante feudi sia in Lunigiana sia nel marchesato di Godiasco in Lombardia (Oltrepò Pavese):
        • Malaspina di Castiglione e Casalasco, da Castiglione del Terziere fraz. di Bagnone in Lunigiana, e da Casalasco fraz. di Val di Nizza nell'Oltrepò Pavese, ebbero origine da Franceschino detto il Soldato, figlio del Marchesotto; si estinsero in tre generazioni, Castiglione passò a Firenze e Casalasco ai Malaspina di Oramala.
        • Malaspina di Bagnone e Valverde, da Bagnone in Lunigiana e Valverde nell'Oltrepò Pavese, ebbero origine da Antonio, figlio del Marchesotto. I figli di Antonio divisero i beni: Bagnone rimase a Riccardo, i cui nipoti lo vendettero a Firenze, e la cui discendenza è estinta nella linea maschile nel 1987; Valverde rimase al fratello Antonio, la cui discendenza probabilmente esiste ancora nell'Oltrepò.
        • Malaspina di Treschietto e Piumesana, da Treschietto fraz. di Bagnone in Lunigiana e da Piumesana fraz. di Godiasco nell'Oltrepò Pavese, ebbero origine da Giovanni, figlio del Marchesotto; nel 1698 vendettero Treschietto al Granduca di Toscana, e anche la loro signoria su Piumesana e la consignoria su Godiasco si ridusse a quote modeste. Si estinsero nel XIX secolo.
        • Malaspina di Filattiera e Cella, da Filattiera in Lunigiana e Cella fraz. di Varzi nell'Oltrepò Pavese, ebbero origine da Obizzino, figlio del Marchesotto; nel 1514 Bernabò, ribelle agli Sforza, fu squartato a Voghera, e il feudo di Cella fu confiscato; suo figlio Manfredi vendette Filattiera al Granduca di Toscana; la discendenza si estinse nel XVIII secolo.
        • Malaspina di Malgrate e Oramala, da Malgrate fraz. di Villafranca in Lunigiana e da Oramala fraz. di Val di Nizza nell'Oltrepò Pavese, ebbero origine da Bernabò, figlio del Marchesotto. Fu uno dei pochi rami della famiglia, insieme a quello di Fosdinovo, a non diminuire il proprio potere, ma anzi incrementarlo nel tempo, acquisendo la quasi totalità delle quote del marchesato di Godiasco, il marchesato di Pozzol Groppo e il marchesato di Fortunago, oltre che partecipazioni nella maggior parte degli altri feudi malaspiniani nell'Oltrepò. Furono quindi chiamati poi Malaspina di Godiasco, Pozzol Groppo e Fortunago.
        • Bernabò 1351-68
        • Niccolò -1408
        • Bartolomeo -1456
        • Ercole -1477
        • Malgrate -1499
        • Giambattista -1514
        • Cesare -1549
        • Ercole II -1581
        • Pier Francesco -1622
        • Giuseppe
        • Pier Francesco II -1692
        • Ercole III Benedetto -1723
        • Agostino -1750
        • Ercole IV -1797
        Si divise nei due rami di Godiasco-Pozzol Groppo e di Fortunago, che si estinsero rispettivamente nel XIX e nel XX secolo.
        • Malaspina di Sagliano, da Sagliano Crenna fraz. di Varzi, ebbero origine da Azzo, figlio di Nicolò di Oramala e Malgrate, e si estinsero nel XVIII secolo.

         

         

        Linee esistenti alla metà del XVIII secolo

           SPINO SECCO

        • Mulazzo, Montereggio e Castagnetoli (1746): Carlo Moroello 1746-74, protettorato toscano
        • Calice, Veppo, Madrignano, Mulazzo (1710): Gian Cristoforo 1710-63; feudo ceduto alla Toscana nel 1772
        • Suvero, Monti: Rinaldo III 1736-70
        • Orezzoli, Volpedo: Marco Antonio 1691-52 (linea non sovrana), ai Savoia
        • Fabbrica di Ottone (linea non sovrana), ai Savoia
        • Ottone (linea non sovrana), ai Savoia
        • Pregola, Campi, sotto il Groppo: Corrado 1720-77 (linea non sovrana); Ercole III di Malgrate 1750-97, ai Savoia
         
        • SPINO FIORITO:
        • Fosdinovo, Gragnola, Castel dell'Aquila: Gabriele III 1722-58, vicario imperiale in Italia
        • Fabbrica Curone: Antonio Sforza Malaspina 1739-59 (linea non sovrana), ai Savoia
        • Santa Margherita, Menconico: Francesco Agostino 1749-57: Corrado di Pregola 1720-77 (linee non sovrane)
        • Malgrate, Filetto, Godiasco, Oramala, Fortunago, Piumesana: Ercole IV 1750-97, in parte feudi non sovrani.
        • Grondona (linea non sovrana)
        • Valverde, S.Albano, Monfalcone, Godiasco, Piumesana: Carlo Antonio 1704-59 (linea non sovrana)
        • Varzi (linea non sovrana), ai Savoia

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martedì 2 luglio 2013

SANT'ALBERTO DI BUTRIO - UN MISTERO DELLA STORIA INGLESE IN OLTREPO ALTA VAL TREBBIA-SCRIVIA LIGURE

Non è senza profonda impressione, visitando in una valle inselvata dell’Appennino vogherese un poverissimo romitorio dove alcuni frati vivono custodendo la tomba di Sant’Alberto e lavorando pochi ripidi campicelli, che sotto un arcone, in quello che fu in passato un chiostro della Piccola abbazia montana ed ora è una specie di corridoio di comunicazione tra la chiesa e gli squallidi locali d’abitazione dei religiosi, si trova scritto sopra un cartellino attaccato al rozzo intonaco: “Qui è la tomba dove fu sepolto Edoardo II Re d’Inghilterra, che sposò Isabella di Francia e al quale successe il figlio Edoardo III”. Ci perdonino i buoni religiosi che vivono in quella solitudine pregando e rinnovando con il lavoro l’antica regola benedettina, ci perdoni Sant’Alberto, eremita del Mille, la cui tomba è conservata in una delle tre rustiche chiesette affrescate da un ingenuo pittore del Quattrocento, ma l’incontro di una memoria di quel genere, in quei paraggi, fa subito passare in secondo piano tutte le belle cose di religione, antiche e recenti, che il visitatore ha udite fino a quel momento, lo fa rimanere trasecolato e incerto a interrogare le sue lontane memorie liceali della storia dei Plantageneti e della guerra delle due Rose.

Edoardo II, chi era costui? E come mai è capitato in queste strettoie dei nostri monti? Il fatto dovrebbe essere clamoroso, e allora ‑ dice sempre tra se il visitatore ‑ com’è che non ne ho mai sentito parlare? Il cortese accompagnatore si limita a spiegare che quel Re inglese è morto qui eremita, tre secoli dopo il tempo di Sant’Alberto; che la sua tomba è lì, sotto l’arcone, e per vederla basta rimuovere questi grossi ciottoli dei quali è ora lastricato questo piccolo braccio di chiostro: quella tomba però è vuota, la salma del Re sarebbe stata trasportata in Inghilterra in un tempo imprecisato. C’è sì, anche sul luogo, chi ne sa di più, ma in questo momento è assente; il buon fraticello dalla nera barba, che ha appena lasciato l’aratro perché questa è la stagione della semina, può aggiungere solo che Edoardo fu un Re infelice e tradito, che aveva dovuto abbandonare il trono, che stette qui a far penitenza quando nel suo regno e nel vasto mondo lo credevano morto.

Inutile dire che l’ombra patetica di questo Edoardo, trovata sull’Appennino, accompagna da quel momento il visitatore, il quale, appena sceso dalla montagna, si getta sulla prima enciclopedia che gli capita sotto mano per trovare una risposta ai molti interrogativi. Edoardo II, gli dice finalmente un buon testo, fu il figlio del grande Edoardo I dei Plantageneti, Re d’Inghilterra, crociato, dominatore della Scozia e conquistatore del Galles. Suo figlio anzi, proprio quello che sarebbe morto nel romitorio di Sant’Alberto di Butrio, nell’Appennino vogherese, fu per quella conquista paterna il primo Principe di Galles dell’Inghilterra. Ma egli non aveva le qualità del padre; fu uomo debole ed effeminato, dominato da ignobili favoriti ai quali concedeva le redini del potere, oggetto di scandalo per il paese, fieramente osteggiato dalla nobiltà e dal clero. Aveva sposato Isabella, figlia di Filippo il Bello, colei che il popolo chiamò "la lupa di Francia", ma, disgustata della vita del marito, Isabella un certo giorno lo abbandonò e si recò in Francia portando con se il giovanissimo figlio. Di là, assistita da esuli inglesi della nobiltà, tra i quali Lord Mortimer, diventato poi l’amante della Regina, Isabella brigò per rovesciare l’imbelle marito. Allestì tra l’altro una flotta e un bel giorno sbarcò a Dover e mise in rivolta il paese. Edoardo, che era più amante delle mondane brigate e dello sport che delle armi (aveva toccato una dura sconfitta dagli Scozzesi ribellatisi), fu abbandonato da tutti. Cercò di fuggire con qualche partigiano ma fu preso, giudicato dal Parlamento di Londra, obbligato ad abdicare a vantaggio del figliolo ancor giovinetto che prese il nome di Edoardo III; alla fine fu rinchiuso nel castello di Berkeley ove, poco dopo, fu ucciso con barbaro e atroce tormento, cum veru ignitu inter celanda confossus.

Questa tragica conclusione, dice la storia, ha avuto luogo il 21 settembre del 1327; si conoscono i nomi degli esecutori ma non è mai risultato chiaro per ordine di chi abbiano agito. È invece fuor di dubbio che Edoardo III, liberatosi a diciotto anni, con un colpo di Stato, dell’ignobile tutela dell’amante della madre, punì esemplarmente i traditori. Lord Mortimer fu trascinato a coda di cavallo e messo a morte, la Regina Isabella fu risparmiata solo per intercessione di Papa Giovanni XXII, ma relegata a vita nel castello di Rising. Al padre, il cui cadavere era stato sepolto nell’abbazia di Gloucester, Edoardo III eresse un mausoleo che è una delle opere più insigni dell’arte gotica normanna.

Se così parla la storia, a prima vista parrebbe esclusa ogni possibilità di accordare fondamento alla tradizione appenninica che vuole Edoardo II morto penitente a Sant’Alberto di Butrio. Senonché, dicono i competenti, quella storia è stata scritta vent’anni dopo il fatto, quando già la leggenda se n’era impadronita; le cronache inglesi sugli ultimi giorni del disgraziato Principe sono le più diverse e strane; lo danno fuggito di carcere diverse volte, poi ripreso (o ritenuto ripreso), visto che raccontano il crudelissimo supplizio; parlano anche di tentativi armati di liberarlo e di gente messa a morte per questo. Basti dire, ad esempio, che, a proposito dell’asserito supplizio nel castello di Berkeley, c’è chi afferma che esso era stato ordinato dalla Regina, desiderosa di passare a nozze con il Mortimer, e chi lo spiega invece come avvenuto per iniziativa dei carcerieri i quali, vedendo che la Regina continuava a inviare messaggi al prigioniero, e argomentando che costui sarebbe stato presto liberato ed essi puniti delle loro sevizie, per salvarsi deliberarono di ucciderlo e poi fuggirono in Francia. Un fatto in ogni modo è certo: e cioè che ci furono moltissimi in Inghilterra i quali, dopo il 1327, affermarono che Edoardo II non era morto ma faceva vita di penitente. Quest’idea di darsi a vita religiosa per far dimenticare i suoi trascorsi, Edoardo II l’aveva effettivamente espressa in una canzone scritta in carcere, e questo motivo del Re penitente fu uno dei temi più in voga della poesia popolare del tempo. Non solo, il fratellastro di Edoardo, Edmondo, Duca di Kent, fu messo a morte nel 1330 da Mortimer e dalla Regina, appunto perché aveva asserito che Edoardo non era morto. La tradizione italiana appariva così già come la continuazione e il compimento di una tradizione inglese.

Che non esistesse a Sant’Alberto nessuna iscrizione neanche tombale relativa alla straordinaria vicenda, era comprensibile per il fatto che il Re non si considerava lì che un uomo qualsiasi in cerca di oblio; di più era singolare il fatto che, tranne quella di Sant’Alberto, nessun’altra tomba esistesse nella piccola abbazia oltre a questa misteriosissima, scavata nella viva roccia, sotto un arcone di quell’ala dell’antico chiostro, ora rabberciata alla meglio, che guarda a ponente. Quella tomba nel vivo sasso era una cosa del tutto singolare. I monaci infatti venivano sempre sepolti nella nuda terra anche di recente, durante lavori di sterro, si sono trovate ossa di quei cenobiti e vicino ad esse cilici e altri strumenti di mortificazione; essa doveva dunque essere riservata a un personaggio di conto, ospite del monastero e non monaco nel vero e proprio senso della parola. Nella piccola abbazia vi erano infine due preziosi candelabri di gran valore, tanto che oggi sono conservati nel Museo di Torino che la tradizione diceva portati in omaggio dall’Inghilterra quando erano venuti a prendere il corpo del defunto Sovrano. Erano due preziosi esemplari d’arte limosina del XIII secolo, a smalto turchino e rosso, provenienti dall’Aquitania, terra che in quel periodo non dipendeva direttamente dal Re di Francia, ma era feudo proprio della Corona inglese. Che in quel poverissimo romitorio esistessero due candelabri di quel genere, di gran valore e di un’arte quasi sconosciuta in Italia, era un documento che poteva valere a vantaggio della tradizione quanto una pergamena scritta.

Ma un fatto nuovo e inaspettato doveva venire a dar anche maggior credito alla tesi dell’abbazia di Sant’Alberto, nel 1877.
Un professore dell’Università di Montpellier, Alessandro Germain, rinveniva nel cartulario di Maguelone una trascrizione e raccolta di atti messa insieme nel 1368, per ordine del vescovo di Maguelone e tesoriere del Papa; la copia di un documento latino senza data, ma con la firma di Manuele del Fiesco, notaio pontificio e poi vescovo di Vercelli tra il 1343 e il 1348, in cui, sotto forma di lettera diretta dal prelato italiano ad Edoardo III, i due elementi della tradizione che volevano Edoardo II fuggito di prigione e dedito a vita di penitenza, quello inglese e quello italiano, venivano spiegati e congiunti con una precisa quanto impressionante narrazione:

In nomine Domini, amen, incomincia la lettera del Fiesco e prosegue: “Ciò che ho udito per confessione del padre vostro, di mia mano ho scritto ed ho disposto che alla Signoria Vostra venga comunicato. Egli dice primamente che, sentendo l’Inghilterra sollevata contro di lui per incitamento di vostra madre, si separò dalla sua famiglia riparando nel castello sul mare del conte Maresciallo (il conte di Norforlk) detto Gesosta (Chepstow). Poi, intimorito, si imbarcò con Ugo de Spencer col conte d’Arundel e con alcuni altri, e sbarcò in Glancorgan, dove fu fatto prigioniero dal signor Enrico di Lancaster insieme col detto Ugo e con maestro Roberto de Baldock. Egli fu chiuso nel castello di Kenilworth, e gli altri in altri luoghi”.

“Ivi, su richiesta di molti, perdette la Corona, che passò in seguito sul vostro capo nel giorno della Candelora. Infine lo tradussero nel castello di Berkeley. Qui, il servitore che lo custodiva. dopo qualche tempo, disse al padre vostro: Signore, i militi Sir Tomaso de Gornay e Sir Simone d’Esberfort sono venuti per uccidervi; se vi piace vi darò le mie vesti affinché vi sia più facile l’evasione. Allora, così travestito, nel crepuscolo della notte uscì di carcere e giunto senza essere conosciuto e senza ostacolo all’ultima porta, trovò il portinaio che dormiva e l’uccise; e, tolte le chiavi, aprì la porta e uscì con il servo. I detti militi che erano venuti per ucciderlo, accortisi della fuga, temendo l’ira della Regina e il pericolo della loro vita, deliberarono di mettere in una cassa l’ucciso portinaio, ed estrattogli il cuore, lo presentarono maliziosamente insieme col cadavere alla Regina. come se fosse stato del vostro padre. Così il portinaio fu sepolto invece del Re a Gloucester. Uscito dal carcere, il padre vostro fu accolto col suo compagno nel castello di Corf (Corte) dal castellano Sir Tomaso, all’insaputa del suo signore Sir Giovanni di Maltravers, e vi rimase incognito per un anno e mezzo. Saputo di poi che il conte (Duca) di Kent era stato decapitato perché aveva detto ch’egli era in vita, s’imbarcò. per volontà e consiglio del detto Tomaso, insieme col predetto suo servo, sopra una nave, e passò in Irlanda, dove rimase per nove mesi. Ma temendo d’esservi riconosciuto, preso l’abito d’un eremita, tornò in Inghilterra, scese al porto di Sandwich e, sempre travestito, si rese per mare all’Ecluse in Fiandra. Andò in Normandia e di là per la Linguadoca in Avignone dove, dato un fiorino ad un servitore del Papa, mandò un biglietto a Giovanni XXII che lo chiamò presso di sé, e onorevolmente lo albergò in segreto per quindici giorni. Finalmente, dopo varie trattative e considerata ogni cosa, preso congedo, andò a Parigi, quindi nel Brabante e di là a Colonia per venerare le reliquie dei tre Re Magi. Da Colonia, per la Germania, si recò a Milano in Lombardia, e da Milano si ritirò in un certo romitorio del castello di Melazzo (presso Acqui) dove stette due anni e mezzo. Essendo poi sopraggiunta la guerra a quel castello, si trasportò al castello di Cecima, in un altro romitorio della diocesi di Pavia, in Lombardia, e ivi è rimasto per circa due anni, sempre recluso, facendo penitenza e pregando Dio per noi ed altri peccatori”.

“In testimonio di che ho fatto apporre il mio sigillo in contemplazione di Vostra Signoria. Vostro Manuele del Fiesco, notaio del signor Papa, vostro devoto servitore”.

Post tractatus diversos, consideratis omnibus, dice il testo parlando delle conversazioni tra il Papa e l’ex Sovrano pellegrino, il che significa che ogni ipotesi e possibilità era stata discussa tra i due e che il Papa aveva finito, considerata bene ogni cosa, per confermare Edoardo, ch’era stato colpevole oltre che debole, nel proposito già manifestato e messo in pratica di viver sconosciuto e di far vita da penitente. Un castellano di Berkeley, dopo essere stato nel 1330 ad Avignone, riferì in Inghilterra che Giovanni XXII sapeva che Edoardo II era ancora in vita, in base a quella testimonianza il Papa fu interpellato da Edoardo III: rispose di non saper nulla, ma che se qualcosa avesse saputo avrebbe chiesto al Re di usare clemenza verso il suo genitore. Risposta singolare che ci pare più affermativa che negativa: non si vede infatti come il Papa avrebbe potuto svelare il segreto al quale era impegnato verso il regale penitente. E’ molto verosimile invece che Manuele del Fiesco, alto prelato della Curia papale, cugino del vescovo di Tortona del tempo, stretto parente dei Malaspina signori della regione e quindi protettori dell’abbazia di Sant’Alberto, di più canonico di York, buon conoscitore dell’Inghilterra dove i suoi avevano da varie generazioni canonicati e prebende, nipote di un consigliere stesso di colui che era stato Edoardo II, quindi presumibilmente ben conosciuto sia dall’ex Sovrano che dal suo successore, trovandosi in Italia abbia avuto sentore dai suoi parenti dell’eccezionale penitente che si trovava a Sant’Alberto di Butrio, che abbia voluto vederlo, che da lui abbia avuto la singolare narrazione e nello stesso tempo l’incarico di scriverne al figlio. Edoardo III avrebbe così appreso che il padre era ancora in vita ma lontano ormai da ogni idea di far ritorno in patria. Più tardi, morto il genitore. Edoardo III ne avrebbe fatto trasportare il corpo nel superbo sarcofago di Gloucester dove era stata fino allora la salma del guardiano ucciso dal Re, ed avrebbe mandato in dono ai monaci i due bellissimi candelabri. Tutto questo però Edoardo III l’avrebbe fatto in segreto per ottime ragioni, la prima delle quali era di non offrire, con la rivelazione che il padre era od era stato vivo anche dopo il 1327, pretesti a intrighi e a eventuali contestazioni agli atti del suo governo.

In Italia la questione sollevata dalla scoperta di questa lettera è stata studiata per primo da un diplomatico illustre, Costantino Nigra, il quale elencò un buon numero di valide ragioni per dimostrare l’autenticità del documento e quindi la realtà della dimora e della morte di Edoardo II Plantageneto in Val di Nizza. Il Nigra invitò anche alcuni storici inglesi ad occuparsi dell’argomento ma con scarsissimo risultato; alcuni fecero conoscere altre testimonianze per dimostrare come Edoardo II fosse ritenuto vivo in Inghilterra anche dopo il 1327, cosa che già si sapeva; altri giudicarono senz’altro la lettera di Manuele del Fiesco come una contraffazione o una fantasia messa in pergamena, senza accompagnare questo giudizio con una motivazione qualsiasi. Ma come sia il Nigra che la dottoressa Anna Benedetti (che ritornò più recentemente sull’argomento ed aggiunse alla causa dell’autenticità larga copia di altre ragioni) hanno già fatto osservare, non si vede quale mira avrebbe potuto avere una contraffazione, senza dire che il contraffattore non avrebbe potuto essere che il Fiesco stesso, cioè un personaggio ben conosciuto e un alto prelato perché nessuno come lui poteva essere in grado di parlare con assoluta esattezza di cose così lontane e diverse tra loro come la vicenda inglese di Edoardo. I suoi personaggi e luoghi da una parte, e dall’altra di località come Cecima, in Val di Nizza, e Melazzo nell’Alessandrino, erano tanto poco conosciute che lo scopritore francese della lettera nel 1877 le confuse addirittura con Cecina in Toscana e Milazzo in Sicilia, aumentando con questi errori la naturale diffidenza degli Inglesi per il documento. Più si approfondisce la questione, sulla scorta almeno degli elementi che si possono avere oggi, e più questa romanzesca vicenda di un Re inglese che chiude i suoi giorni in una valle romita della Lombardia, ignorato da tutti i suoi, appare fondata. Una sola sicura prova negativa poteva distruggere la tradizione, ma una prova di quel genere non è mai emersa, ed ogni nuova indagine ha confluito invece all’esito opposto: ha dimostrato esatti particolari dei quali prima c’era motivo di dubitare, ha fatto apparire verosimili situazioni che per la grande differenza dei tempi erano apparse assurde.
In alio heremitorio diocesis Papiensis dice, ad esempio, la lettera dopo aver nominato il castello di Cecima, luogo allora ben più importante di oggi che è semplice frazione, il luogo anzi più importante che si trovasse negli immediati paraggi dell’abbazia di Sant’Alberto. Ora Cecima non fa né faceva parte della diocesi di Pavia, dipendeva e dipende da Tortona; la contraddizione è palese; ma la stessa contraddizione non dura che un minuto: Cecima, infatti, pur dipendendo ecclesiasticamente da Tortona, era allora un feudo del vescovo di Pavia al quale paga ancor oggi, in memoria dell’antica dipendenza, un tributo. Non solo, ma questo particolare può anche spiegare perché da Melazzo, diventato rifugio non sicuro a causa della guerra, il Re penitente andasse proprio a Cecima: il fatto di appartenere all’autorità ecclesiastica era per i paesi una particolare difesa e in circostanze di guerra li garantiva dall’invasione e dagli eccessi della soldataglia.

Si è detto che sopra la tomba, scavata nel sasso vivo, è stato murato e si vede ancora a Sant’Alberto di Butrio un arcone a tutto sesto; esso risponde ad un uso che non è comune nei paesi meridionali ed è in sostanza un segno d’onore per i re e i guerrieri nordici; ora se si osserva la riproduzione del ricchissimo mausoleo gotico che Edoardo III costruì per il padre nell’abbazia di Gloucester, non si può non rimaner colpiti dal vedere un arco gigantesco girare anche lì sopra la selva di statue e di pinnacoli di quel funebre monumento. Ancora, al povero braccio claustrale, pavimentato di grossi ciottoli, dove si trova ora la tomba, danno luce verso occidente una trifora e tre bifore i cui capitelli, secondo l’uso dei tempo, sono intagliati con figure allegoriche e mostruose. La dottoressa Benedetti, studiando quelle rozze figurazioni, che hanno sofferto molto per l’opera del tempo, ha creduto di vedervi rozzamente tradotta la vicenda stessa della vita di Edoardo. La sua ipotesi, inutile dirlo, è molto seducente anche se, arrivato sul posto, il visitatore si trovi assai a disagio nel seguirla. Ecco, ad esempio, un leone che tenta di sbranare un agnello, addentandolo in mezzo alla schiena; ma esso si rivolta e cerca di mordere l’avversario (il fanciullo Edoardo III ‑ e Mortimer?): lo stesso leone, nel motivo ornamentale dell’altro spigolo, tormenta il capo di una donna avvolto da bende (Mortimer e Isabella?). Nel terzo spigolo il leone sbrana un capro che allarga nello spasimo la bocca (Mortimer e il Duca di Kent?); altrove un giovine, dalla tunica serrata ai fianchi da un cingolo, tiene in mano una mazza levata a colpire una donna atteggiata a dolore mentre contempla il capo reciso d’un uomo (il giovane Edoardo III, Isabella e la testa di Mortimer?). La Benedetti, che nella figurazione, ad esempio della sirena (come quello del leone uno dei temi più ripetuti dei bestiari medioevali), ha creduto di vedere il segno araldico del primo Principe di Galles, scrive: "Non sarebbe meraviglia che da un esame accurato e collettivo di queste sculture si giungesse a rilevare che lo stesso Edoardo II ha guidato la mano dell’artista. Il monarca, esiliato e penitente, adusato dalla regola benedettina alla contemplazione della morte, potrebbe aver fatto apprestare, o apprestato a sé medesimo il sepolcro e, sopravvivendo in lui il desiderio di svelare il segreto della propria esistenza (come apparirebbe dal messaggio affidato a Manuele del Fiesco), aver tentato di far riprodurre dall’artista figurazioni e motivi che potevano aver riferimento alle vicende della sua vita avventurosa e simboli a lui ben noti".

Queste non sono che alcune delle analogie e concordanze e interpretazioni che gli studiosi dell’argomento hanno riunito a sostegno della loro tesi. Chiamarle prove sarebbe probabilmente troppo; ma è da tener presente che nessuna prova seria esiste neanche nell’altro campo di tutta la questione, essendo impostata sulla domanda: l’individuo che fu sepolto nel 1327 nella abbazia di Gloucester fu Edoardo II od un umile portinaio vittima del destino? Il fatto solo che da tante parti e con tante e diverse tradizioni si sia parlato e scritto di Edoardo come vivo anche dopo quella data, è già un elemento a favore del portinaio, elemento significativo anche se non prova decisiva. Del resto l’incertezza relativa a quella sontuosissima tomba è stata sempre tanto diffusa che, cinquant’anni fa, essendo tornata a circolare la voce che essa era vuota, fu fatta una ricognizione ufficiale. Entro una cassa di zinco, rinchiusa a sua volta in una cassa di legno, furono trovati dei resti umani che il verbalista giudicò ben conservati; ma di chi fossero realmente nessuno fu in grado di stabilire; così dal nostro punto di vista l’appassionante questione non ha fatto per quell’indagine nessun passo. E che essa possa esser facilmente risolta, anche con studi e indagini sistematiche, è molto dubbio perché gli elementi della straordinaria vicenda hanno giocato in modo da assicurarle da una parte la congiura del silenzio‑desiderio di mortificazione religiosa e ragion di Stato e dall’altra quelle fatali amplificazioni o deformazioni del fatto reale che nascono sempre dall’appassionato interessamento dei popoli per le cose patetiche e misteriose. Se la lettera di Manuele del Fiesco è realmente venuta in mano di Edoardo III, che uso ne ha fatto il Re inglese? A parte il presunto trasporto segreto della salma del padre in patria, che cosa ha fatto egli del documento? È possibile che esso esista ancora in fondo a qualche archivio? O non è molto più giustificato pensare che il Re, per le ragioni stesse che gli consigliavano il segreto nel trasporto della salma, quel documento l’abbia distrutto?

Se l’Inghilterra offre perciò, quanto a nuove indagini poche prospettive, anche meno fruttuose appaiono le ricerche in Italia visto che dell’abbazia di quel Sant’Alberto che, secondo la leggenda, cambiò l’acqua in vino alla mensa di Alessandro II, (e il fatto si vede affrescato in una delle tre chiesette) non è rimasto che qualche muro malandato e qualche documento relativo a proprietà di terreni. In rari casi la dispersione dei documenti e il decadimento degli edifici sono stati così assoluti, come in questo monastero della Val di Nizza; questo si spiega col fatto che, appena tramontati i tempi della fede eroica, la piccola abbazia tra i monti non ebbe neanche più monaci; dal Cinquecento in poi i suoi beni furono dati in commenda. Al servizio divino attese un sacerdote. In condizioni di miseria estrema la parrocchia non conta che un centinaio d’anime, gli stabili subirono le più oltraggiose manomissioni, l’attuale sagrestia, ad esempio, servì da stalla e la galleria dove si trova la tomba fece per secoli da ripostiglio e da legnaia. Qualche pergamena esiste ancora, qua e là negli archivi dei dintorni, ma dal 1317 al 1407, cioè anche per gli anni che interessano la nostra vicenda, non esiste un solo documento. Quanto poi alla tomba famosa – lunga due metri, larga ottanta centimetri e profonda sessanta, tutta segnata dai colpi dello scalpello, – una ricognizione fu fatta anche li’, quindici anni fa, dai contadini che erano allora sul luogo, con il proposito, si disse, di ripulire il sepolcro Tolta la pietra di chiusura, non fu trovato nell’interno che la calotta di un cranio che fu trasportata nell’antico cimitero ed inumata. Apparteneva essa ad Edoardo di Caernarvon o, come è più probabile, a un mortale qualsiasi sepolto lì, nella tomba rimasta vuota, qualche secolo dopo? I resti del primo Principe di Galles che abbia avuto l’Inghilterra riposano realmente sotto il sontuoso monumento dell’abbazia di Gloucester o sono perduti nel terreno sacro dell’antico cimitero dei monaci di Sant’Alberto di Butrio? Nessuno forse potrà mai dirlo. E il mistero è reso anche più patetico dall’esotica grandezza di quella penitenza regale tra i nostri monti e dal rustico squallore odierno dei luoghi dove essa si svolse.

(da "La Lettura", Milano anno XXXVIII n. 12, dicembre 1938‑XVI, pag. 1119ss.)